Campagne di prevenzione: a chi servono davvero?

È chiaro a tutti da anni: a settembre iniziano i mesi della prevenzione. Dopo le ultime raccomandazioni per affrontare l’afa e i disturbi annessi, con il caldo estivo sembra sospendersi la sorveglianza sulla propria salute per poi riprendere a settembre. Si comincia con la visita dermatologica post tintarella e si prosegue con il mese della prevenzione odontoiatrica, il mese rosa contro il tumore al seno e tante giornate dedicate a una singola malattia. Ben vengano! La domanda è: le campagne di prevenzione sono efficaci? La ricerca medico scientifica, i pazienti, i non pazienti, chi aiutano davvero? Non ho risposte nette ma considerazioni che raggruppo in due categorie: punti di forza e criticità.

Diffusione delle campagne di prevenzione

Diffusione delle campagne di prevenzione – Gratisography.com

Punti di forza delle campagne di prevenzione

Dare un nome alla malattia. Il primo punto di forza che riconosco alle campagne di prevenzione è rendere famigliari il nome, i sintomi e le cause di una patologia anche a chi non ne è affetto. Tumore, diabete, linfoma sono appellativi generici che comunicano in modo immediato il tenore della malattia. A furia di usarli sono diventati termini comprensibili a tutti e precedono nomi specifici meno noti, un esempio è il linfoma di Hodgkin.

Informare tutti, arrivare a tanti. Il secondo merito delle campagne di prevenzione è la capacità di arrivare a target diversi grazie alla presenza su mezzi di comunicazione accessibili a tutti: televisione, giornali, web, radio.

Parlare per coinvolgere. Per paura di non essere capito e accettato dagli altri, chi convive con una malattia tende a nascondere molti aspetti della propria vita, specie se compromessi da una patologia rara. È un atteggiamento che porta a isolarsi e che spesso coinvolge anche i famigliari del paziente. Le giornate di sensibilizzazione e le campagne di prevenzione hanno una diffusione capillare e aiutano chi soffre della patologia a superare la distanza dagli altri. In queste occasioni, i malati possono uscire dai gruppi di discussione online e interagire fisicamente con altre persone per far conoscere la propria condizione, testimoniare sintomi ed effetti della malattia, collaborare con i medici e chiunque lo voglia per migliorare il percorso terapeutico.

Rendere accessibile la prevenzione. Non solo discussioni e dépliant informativi: le campagne di prevenzione promuovono la prassi corretta per evitare o gestire la malattia. Visite, consulti specialistici e screening gratuiti o a costi ridotti incentivano a un controllo medico sia le persone con fattori di rischio ma non malate, sia quelle già colpite dalla patologia. Così, per alcuni giorni all’anno, un’ampia parte della popolazione si sottopone a una visita medica preventiva che, probabilmente, non avrebbe mai fatto.

Porre un problema all’attenzione delle istituzioni. Un esempio tra tutti è dato dalla complessità di riconoscere e dare un nome a una malattia rara. Ci sono condizioni così desuete da rendere difficile il lavoro di ricerca che permette di capire la causa e le dinamiche della malattia e, men che meno, di trovare una cura efficace. La compresenza di tali fattori si concretizza anche nella difficoltà di dare un nome alla patologia. Quello delle malattie senza nome è un problema solo in apparenza banale: dare un nome a una malattia la rende riconoscibile e definisce i criteri per la prevenzione. Lo sa bene la Fondazione Telethon che destina fondi e progetti al riconoscimento delle malattie genetiche senza diagnosi per darne un nome e una cura. E lo sa bene anche il ricercatore oncologo Siddharta Mukherjee, Premio Pulitzer 2011 per “L’imperatore del male. Una biografia del cancro”.

Criticità delle campagne di prevenzione

Sintesi inefficace. Una delle criticità che mi è capitato di cogliere in alcune campagne di prevenzione è la sintesi. La diffusione capillare sui più comuni canali di comunicazione è un punto di forza, ma se il messaggio è eccessivamente sintetico o poco chiaro sarà ignorato o compreso solo dalle persone già colpite dalla malattia fallendo, così, lo scopo dell’iniziativa: fare prevenzione. A tal proposito mi viene in mente #fatevedereletette, l’hashtag nato due anni fa per sostenere la prevenzione del cancro al seno. In poche ore è svettato in trend topic su Twitter e ha raccolto grande seguito su Facebook: l’iniziativa è diventata virale. Peccato non fosse supportata da alcuna informazione sulla malattia e sui modi di prevenire e riconoscere il tumore alla mammella. Slegato dal contesto del mese rosa 2014, l’hashtag suonava come un invito sfrontato che ha raccolto seguito ma ha anche generato esibizionismi fuori luogo e reazioni divergenti.

Un semplice malessere diventa malattia. Con le giornate mondiali dedicate una patologia e le campagne di prevenzione può accadere che un semplice disturbo di salute diventi una malattia da curare con farmaci e terapie. È successo con i livelli di glicemia e pressione arteriosa per i quali sono stati inventati i termini prediabete e preipertensione: non malattie e nemmeno fattori di rischio, ma condizioni che potrebbero generare le une o gli altri. Ed è successo quest’estate quando la Società Europea di Cardiologia ha divulgato i nuovi livelli raccomandati di colesterolo cattivo: anche per chi non ha altri fattori di rischio le LDL non devono mai superare il valore di 100 ml/dl. Così, abbassata la soglia ritenuta patologica, aumenta la platea delle persone malate e cresce il numero di quanti rispondono alle campagne di prevenzione, si sottopongono a esami diagnostici e assumono farmaci. I dettagli riguardanti queste dinamiche sono trattate nelle pagine del settimanale Pagina 99 del 17 settembre 2016 (Anno 3, Numero 34).

Il marketing sanitario alimenta l’industria della salute. La criticità espressa al punto precedente porta a quest’ultima considerazione: se è vero che stati normali di salute possono diventare vere e proprie malattie, è vero anche che a volte i nuovi pazienti diventano strumenti inconsapevoli di operazioni commerciali, ricerche e perfezionamento delle strategie di marketing. A riguardo, consiglio un’attenta lettura dell’articolo pubblicato nel 2005 su Partecipa Salute dal titolo Campagne di prevenzione: una guida all’uso di cui riporto un estratto:

Come tutti i mercati, anche l’industria della Salute per prosperare deve:

Moltiplicare prodotti e servizi per indurre consumi crescenti (…).

Reclutare nuovi clienti (magari anche tra coloro che non hanno disturbi o si ritengono sani).

Fra le strategie di allargamento del mercato più adottate figurano le campagne di sensibilizzazione e prevenzione. C’erano, soprattutto un tempo, iniziative genuine e spontanee generate dalla buona volontà di medici e malati di fare qualcosa per contrastare questo o quel male, diffondendo tra il pubblico la conoscenza di come si manifesta e di come si combatte. Purtroppo gli esperti di marketing si sono ben presto accorti delle enormi potenzialità promozionali di tali attività, e hanno cominciato a suggerire l’opportunità che vengano finanziate o promosse direttamente dall’industria della salute. Questo fenomeno, che in inglese si chiama disease mongering (commercio di malattie), sta diventando la modalità prevalente con cui il pubblico riceve informazioni in campo medico. (…)

Personalmente ritengo che i punti di forza e gli effetti positivi delle campagne di prevenzione e sensibilizzazione prevalgano, per numero e importanza, sui punti deboli. Detto ciò, è bene valutare con criticità quando preoccuparsi davvero per la propria salute e come intervenire per migliorare quella degli altri.

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