Ultimamente ho la sensazione che siano aumentate le iniziative che danno centralità e valore al ruolo del paziente esperto, quella persona che convive con una malattia e la conosce talmente bene da poterla insegnare persino ai medici.
O, forse, iniziative del genere ci sono sempre state ma non facevano notizia.
Ma facciamo un passo indietro: chi è il paziente esperto?
Per rispondere, cito qualche passaggio della definizione curata da Maddalena Pelagalli per il Dizionario di Medicina Narrativa:
“Il paziente esperto è colui che […] ha acquisito una certa conoscenza (della malattia n.d.r.) grazie alle esperienze effettuate/subite […].
È chiaro come una tale esperienza possa realizzare un sapere, del tutto particolare, estraneo alla mera dimensione scientifica della malattia e al quale il medico può essere inibito […].
La conoscenza acquisita del paziente esperto è messa al servizio della scelta saggia ed è per questa via che l’esperienza del paziente può essere decisiva per indirizzare il sistema delle cure a scelte consapevoli che tengano conto del sapere acquisito. […]
A queste parole ho pensato dopo aver letto che all’Università di Bradford i pazienti affetti da demenza sono stati coinvolti nella definizione di un corso universitario indirizzato alle figure professionali che si prenderanno cura delle persone con varie forme di demenza. Si tratta del primo corso del genere, lo si potrebbe definire un esperimento.
Quale sarà l’esito effettivo della formazione delle figure assistenziali lo vedremo, ma di certo i pazienti che insegnano la propria condizione di conviventi con una specifica malattia hanno ritrovato la dignità di persone capaci di comunicare, farsi capire e ascoltare. Insomma, di essere considerate persone, innanzitutto.
L’esperienza negativa della demenza acquisisce un valore positivo perché si trasforma in un processo produttivo finalizzato ad istruire le persone che devono curare altre persone.
In sostanza: i medici si affidano alle persone affette da demenza per conoscere le peculiarità della malattia direttamente da chi la vive e trovare, così, modi più efficaci per averne cura.
Certo, la voce di queste donne e uomini non avrebbe avuto alcuna autorevolezza senza la sensibilità di chi ha saputo guardare oltre lo stereotipo per ascoltare attivamente e sostenere il vissuto della persona con demenza. Esattamente ciò che si propone di fare la Medicina Narrativa.
Raccontare la malattia al passato: il potere persuasivo dell’imperfetto
L’altra iniziativa che ha attirato la mia attenzione è l’ultima campagna pubblicitaria di Serenis, una start up tecnologica che propone percorsi di terapia online in videochiamata e che, grazie a uno stile di comunicazione fresco, leggero, colorato, ha saputo ribaltare il preconcetto secondo cui chi va in terapia non è normale.
E qual è l’elemento determinante della psicoterapia? La narrazione, la storia di una persona che chiede aiuto per superare le proprie difficoltà interiori e vivere bene. Da qui, l’idea di prendere quattro storie vere e parlarne all’imperfetto: il tempo usato in italiano per raccontare qualcosa che è passato perché è superato.
Con le evidenti e dovute differenze, anche per le affissioni pubblicitarie di Serenis è stato determinante il vissuto del paziente esperto. In questo caso, quattro persone che hanno richiesto un servizio per prendersi cura di sé e, superate le difficoltà, ne parlano al passato accettando di condividere pubblicamente parte delle loro storie testimoniando un cambiamento per aiutare altre persone a fare lo stesso: iniziare un percorso terapeutico.