Medicina narrativa. Intervista alla Dott.ssa M. Giulia Marini

Sono lieta di inaugurare la rubrica dedicata alla Medicina narrativa con l’intervista alla Dott.ssa Maria Giulia Marini, responsabile dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD.

Dott.ssa Maria Giulia Marini

Dott.ssa Maria Giulia Marini. Responsabile dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD.

Dott.ssa Marini, benvenuta su Scrivere di salute e grazie per aver accolto il mio invito a parlarci di Medicina narrativa. Prima di entrare nel vivo, ci parli un po’ di lei e di cosa significa essere responsabile dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD.
È un’occasione straordinaria quella di poter contribuire a migliorare la qualità delle cure offerte ai cittadini, ai pazienti, alle loro famiglie, e di poter sostenere i medici, gli infermieri e gli altri professionisti sanitari nel loro compito arduo. Arduo non solo perché la cura è un’arte complessa, ma anche perché in questo decennio di doverosa, ma talvolta eccessiva attenzione alle risorse utilizzate, i professionisti dovrebbero poter mantenere la propria libertà di scelta nell’operare secondo scienza e coscienza per il bene della persona da curare. L’eccessiva burocratizzazione della sanità mette a rischio questa libertà, e il rischio è che le persone più deboli si assoggettino a comportamenti pericolosi, come ad esempio dare a ogni visita un tempo di dieci minuti. Come può un medico, un professionista sanitario a dare il meglio in un tempo così breve?

L’Area Sanità della Fondazione desidera che in primo piano ci sia il paziente con il suo nucleo di riferimento e in secondo piano il tema di rendere il servizio più efficiente. Ci occupiamo anche di salute, di benessere e di prevenzione della malattia: queste attività le svolgiamo nelle organizzazioni di studio e lavoro, dagli studenti sino ai collaboratori: pensate che la parola più citata dai collaboratori di diverse aziende del settore dei servizi è pensione. Questo la dice lunga sul malessere che serpeggia in certi luoghi di lavoro oggi, corrosi non tanto dalla crisi quanto dalla demotivazione. Molti che in passato hanno veramente dato tanto sul luogo di lavoro, oggi raccolgono meno, sono stanchi, hanno visto solo una parziale applicazione della meritocrazia. Questi fattori generano malessere e noi lavoriamo non solo con i pazienti ma anche sui cittadini proprio attraverso la Medicina narrativa. Sperando di poter portare un po’ di speranza e ottimismo.

La Medicina narrativa è un vero e proprio strumento terapeutico che affianca le cure mediche durante il percorso di guarigione del paziente. In questo senso, è corretto parlare di scienza della Medicina narrativa? Oppure scienza e discipline umanistiche, come la narrazione, sono distanti?
È una definizione molto avanguardistica dire che la Medicina narrativa sia direttamente una terapia, e non è così considerata nelle definizioni classiche delle due grandi scuole, la Columbia University a New York e il King’s College a Londra. Sicuramente possiamo affermare che attraverso un migliore ascolto della narrazione del paziente si instaura una relazione di cura molto più profonda e capace di formulare al meglio una diagnosi più corretta, valutare se siano veramente necessari esami e terapie o se il paziente abbia soprattutto bisogno di essere ascoltato. Eppure io sono convinta che la narrazione di sé a qualcuno che ascolti – perché la narrazione presuppone la condivisione con l’altro – possa essere già terapeutica.

L’ascolto richiesto dovrebbe essere una capacità di sentire incondizionata, accogliendo la verità o finzione del paziente, quale essa sia. Tanto è vero che le narrazioni sono chiamate oggi factions, una sintesi tra fact e fiction. La cronaca dei fatti della malattia e di come si convive con essa – di fatto la storia – si incontra con la percezione finzionale e fantastica che ci accompagna, di fatto il mito. Come comportarsi di fronte a delle storie che per stessa fallacità umana non potranno mai rispecchiare la realtà? I professionisti sanitari che conoscono bene il loro lavoro le accolgono comunque, in quanto queste sono il punto di partenza per costruire la relazione. Le narrazioni di faction hanno ben poco a che vedere con lo storytelling, spesso storie totalmente inventate seppur ispirate a un fatto vero. A mio avviso, in sanità è la storia narrativa quella che, rispetto alla componente finzionale, dovrebbe avere maggiore risalto: lo è perché si parla di Medicina narrativa non di medicina dello storytelling. Anche se aprire le porte all’immaginazione attraverso lo storytelling può essere utile per ideare un nuovo spazio per vivere con la propria condizione di malato o di curante.

Certamente vi è un ponte tra scienza della Medicina narrativa e scienze cliniche: la scienza della Medicina narrativa poggia sulle scienze sociali, sulle competenze linguistiche, letterarie, antropologiche: però questo non deve generare spavento. Sono discipline che in parte abbiamo appreso nei nostri ambienti e studi precedenti, a parlare e a scrivere soprattutto. Per l’interpretazione dei testi è invece necessaria, oltre a una grande sensibilità, una rigorosa competenza scientifica che è meravigliosamente in evoluzione.

Ogni fase della cura è inserita in un determinato percorso clinico-sanitario che prevede il rispetto di regole ben precise e motivate. In Italia, la Medicina narrativa ha un suo posto nell’iter di cura oppure è considerata come un percorso indipendente e alternativo?
Il 2014 è stato un anno di grande svolta per l’Italia perché l’Istituto Superiore di Sanità ha emanato le Linee Guida della Medicina narrativa: è stato un atto fondamentale perché significa che oggi in ogni luogo di cura Italiano, pubblico o privato che sia, dall’ospedale al medico di medicina generale fino ai consultori, le buone regole della Medicina narrativa devono essere applicate: ascolto, osservazione, riflessione, condivisione e affiliazione con paziente, familiari e colleghi. Non si tratta quindi di una prestazione in più ma di un modus operandi da imparare richiesto a ogni singolo professionista Sanitario. In Università, quando le menti sono più fresche e meno condizionate, non c’è una formazione strutturata a riguardo, ma anzi diverse pubblicazione scientifiche riportano che dal terzo anno in poi l’empatia tende ad atrofizzarsi negli studenti in medicina. Non certo per responsabilità loro, ma per come vengono presentati i casi clinici: insomma c’è molto, molto da fare. Ed è per questo che avere le Istituzioni a favore come l’Istituto Superiore di Sanità, le Direzioni Generali di Aziende Sanitarie Locali e Ospedali che ci credono e spingono verso la Medicina narrativa è importante. Ma è dall’Università che bisognerebbe iniziare.

Il cancer blogging si è affermato grazie alla diffusione degli strumenti e dei dispositivi digitali che permettono, in qualsiasi momento e modo, di condividere un’informazione o un’esperienza come quella della malattia. Cosa pensa della social e digital health, e secondo lei quale contributo ha dato nel diffondere la conoscenza della Medicina narrativa?
Penso che i social abbiano un ruolo chiave nel dare al paziente la possibilità di esprimersi e di annunciare la propria condizione che, ricordiamoci, è stata tenuta per millenni in silenzio, in quanto avere una malattia poteva significare ricevere un castigo divino. So che ci sono dei luoghi virtuali straordinari, i forum dove le persone si scambiano informazioni, si sostengono con fiducia e stringono relazioni. Il limite, ma non riguarda solo la Medicina narrativa, è che si tratta di un mondo virtuale e lontano. Tanta solitudine può rimanere dopo che ci si è sfogati online, e una mia piccola paura è che a furia di vivere sui social network le persone perdano di vista la possibilità di condividere come stanno con le persone che gli sono realmente più vicine. C’è una misura in tutte le cose, anche nell’uso dei social network. Consiglio a questo proposito la visione di un film straordinario sull’uso e abuso della tecnologia virtuale: Lei, Her. Ne emerge l’intera ambiguità della potenza tecnologica.

Il racconto terapeutico, l’ascolto, il sostegno partecipato: la Medicina narrativa può essere annoverata tra i diritti del paziente?
Sì, sono diritti dei pazienti. Vi è una componente etica nella Medicina narrativa: il fatto che il paziente si racconti apertamente, che il medico pure racconti cosa pensa del paziente apertamente e insieme coprogettano gli indirizzi di cura. Certo, il sapere fondamentale è del medico, ma i pazienti stanno diventando sempre più competenti. Ma al di là di questo mi sembra un diritto umano, un paziente desidera essere accolto come Persona: ricordiamoci che la malattia mette in luce la fragilità – e poi successivamente anche la forza della persona – e d’altro canto anche il medico ha le proprie forze e fragilità. Anche il medico va ascoltato: ritorno al mio punto di inizio, i curanti fanno un mestiere difficilissimo, tra successi e fallimenti, vita e la sofferenza, morte, guarigione, invecchiamento e nascita. Insomma, se si sceglie una professione di cura spesso si possiede in nuce un senso di missione verso l’altro: ecco che è importante la Medicina narrativa perché attraverso i racconti dei pazienti, i medici e gli altri operatori recuperano il senso del loro curare, stravolto da ritmi frenetici, tagli al sistema e tecnocrazia. E quindi non è un diritto solo dei pazienti, ma dell’intero servizio sanitario.

Grazie Dott.ssa Marini per la sua disponibilità e buon lavoro!

Dott.ssa M. Giulia Marini, note biografiche
Epidemiologa e couselor, divulgatrice delle Humanities per la Salute in Italia. Provengo da una formazione umanistica classica, e ho scelto di integrare questa conoscenza con studi universitari scientifici con una Laurea in chimica e una specializzazione in Farmacologia. Dopo questa esperienza ho lasciato l’Università per mettermi alla prova nella “pratica” della vita reale dell’ambiente multinazionale farmaceutico privato. Qui mi sono dedicata quasi sempre a progetti di sanità e salute multifrontiera.
Nel frattempo mi sono specializzata in Epidemiologia su programmi di sviluppo di prevenzione delle malattie internazionali. Ho avuto esperienze di formazione all’estero, tra cui la Harvard Medical School, e di lavoro anche in Germania. Ho lasciato l’azienda per entrare nel mondo della consulenza e infine della formazione e ricerca.
Punto di svolta è stato l’ingresso in Fondazione ISTUD dal 2002, luogo di straordinaria attenzione alle scienze umane e sociali. Diventare counselor ad indirizzo analitico transazionale mi ha permesso di unire le competenze scientifiche con quelle delle scienze umane: ecco che i miei interessi prevalenti. Amo la cultura, lo scambio internazionale, lo sviluppo dei giovani e, naturalmente, il mondo della sanità da rendere più umano, ovvero più contestuale al luogo e al tempo in cui vivono i pazienti, i loro familiari e i curanti.

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