Medicina narrativa. Intervista al Dott. Giuseppe Naretto, Nottidiguardia.it

Siamo abituati a pensare a medico e paziente come a due protagonisti di una stessa storia eppure, tra i due, concediamo solo al paziente di mostrarsi impaurito mentre al medico si conviene un atteggiamento professionale che, spesso, fa rima con distacco emotivo. Gli operatori sanitari sanno meglio di me quanto questo sia necessario per aiutare davvero chi ne ha bisogno, ma è sbagliato pensare che dottori e dottoresse non siano innanzitutto persone, esattamente come lo sono i pazienti.
Per parlare del lato nascosto e più umano dei medici, vi propongo l’intervista al Dott. Giuseppe Naretto, fondatore di Nottidiguardia.it, scrittore, fermo promotore dell’etica della comunicazione all’interno del rapporto medico-paziente e persona affascinante. Buona lettura!

Dott. Giuseppe Naretto

Dott. Giuseppe Naretto


Dott. Naretto, benvenuto su SDS e grazie per aver accolto il mio invito. Comincio con il dirle che la sua è una figura molto affascinante: lei è un medico rianimatore ma anche uno scrittore di racconti, romanzi gialli e testi teatrali. La sua produzione letteraria nasce dalle vicende legate alla professione medica ma, al contrario, cosa c’è dell’io scrittore quando indossa il camice?

La scrittura nasce da una vocazione e da un sogno adolescenziale, quindi è venuta prima della medicina, ma sicuramente è anche grazie alla medicina che ha potuto realizzarsi quindi mi riesce molto difficile separare questi due aspetti della mia vita professionale. Credo che fare il medico con lo spirito dello scrittore mi aiuti ad avere uno sguardo più attento agli aspetti umani della malattia. Mi sento più empatico, più disponibile all’ascolto, più aperto all’incontro con il paziente e la sua famiglia. Certo, non sempre e non in tutte le circostanze, ma sicuramente mi libero più facilmente di quelle barriere che mirano alla protezione del medico e alla conservazione di un suo intangibile ruolo.

Dott. Naretto, lei mostra un impegno costante nel promuovere una sorta di etica della comunicazione all’interno del rapporto medico-paziente. Come hanno reagito colleghi e persone assistite ai suoi primi tentativi di un dialogo nuovo, diverso? Pensa che oggi sia più facile rispetto al passato?

Il mio impegno in questo senso si è potuto sviluppare soprattutto grazie al mio direttore, il Dott. Livigni, che ne ha fatto uno dei principali obbiettivi del suo mandato. Aprire la rianimazione ai famigliari dei pazienti ricoverati, per renderli partecipi al processo di cura, per creare un’alleanza forte e nuova per combattere insieme il dramma della malattia critica, è stato il progetto a cui abbiamo lavorato negli ultimi anni. E questo si è potuto realizzare perché tutto il team ha collaborato attivamente.
Oggi certe cose sembrano più facili da applicare perché negli ultimi anni si è sviluppata una sensibilità maggiore anche da parte di medici e infermieri, ma continua a esserci una fortissima discrepanza tra ciò che viene insegnato all’università (e penso soprattutto ai medici) rispetto a quanto poi serve nella realtà clinica quotidiana. La maggior parte delle tensioni che si creano tra famiglie, pazienti e medici sono legate a una cattiva comunicazione. C’è molta ignoranza sui risvolti medico legali di questioni etiche come l’appropriatezza delle cure, la limitazione terapeutica, i trattamenti intensivi e la palliazione, e questo porta in certi casi a una medicina che per paura di sanzioni (per altro inesistenti) si distacca sempre di più dal paziente.

Notti di guardia è il nome del blog collettivo nato nel 2008 per dare voce alla parte più intima di chi, ogni giorno, si prende cura dei pazienti e ne salva la vita. La notte, l’oscurità, è una condizione che torna anche nei suoi romanzi, nei racconti, nelle fotografie che accompagnano i post del blog. Perché la notte, cos’ha di speciale rispetto al giorno?

“Notti di guardia” il romanzo (nella prima versione pubblicata da Sestante Edizioni, una piccola casa editrice di Bergamo) racconta di un medico (il Massimo Dighera che compare poi nell’edizione di Ponte alle Grazie) che nella relazione con uno dei pazienti ricoverati in rianimazione smarrisce i ben definiti confini della relazione medico paziente alla quale era stato educato. Il corpo dell’uomo che fino ad allora per lui non sarebbe stato altro che una macchina biologica da aggiustare, durante le sue notti di guardia si “umanizza” portando dentro al reparto tutta una serie di domande, questioni irrisolte assolutamente estranee alla malattia stessa che però gli appartengono fortemente. Questo innesca la curiosità e l’investigazione. Di notte l’ospedale è diverso, e se cogli questa diversità riesci a vedere le cose sotto una luce nuova che ti arricchisce. Il Blog è nato contemporaneamente al libro come uno spazio comune di condivisione di questa nuova voglia di vedere la medicina.

In una delle recenti interviste, la Dott.ssa Alessandra Cosso ha affermato che, come counselor, spesso affianca i professionisti – medici, infermieri, tecnici – perché trova che nei luoghi di cura molte volte i più trascurati siano proprio loro, nessuno si prende cura di chi cura. È d’accordo?

Assolutamente sì. La formazione bio-medica degli operatori copre solo una parte dei problemi che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare, trascurando tutta la componente umana ed emotiva che la malattia si porta dietro e che i pazienti ci propongono alla ricerca di risposte. Esercitare il ruolo di medico o infermiere od operatore sanitario in genere non è solo l’abilità di prescrivere la giusta terapia e poi somministrarla (in tutte le sue forme), ma è soprattutto la capacità di instaurare una relazione umana empatica con una persona sofferente. A questo noi non siamo preparati e ciò crea nel tempo tensioni e stress che portano ad un malessere professionale, in alcuni casi anche molto grave. Bisogna però riconoscere che i legami causa-effetto tra malessere dell’operatore e ambiente di lavoro non sono sempre facilmente identificabili.

I blog, le community, i social network hanno dato voce e aiuto alle persone che, da pazienti, in rete cercano informazioni, sostegno e confronto diretto con il medico. Però, tranne alcuni casi tra cui lei, la comunità medica sembra restia ad adottare con disinvoltura i mezzi messi a disposizione dal web. È un’impressione o un dato di fatto? Secondo lei perché?

Sempre di più pazienti e famigliari si affidano al web per capire meglio cosa sta loro succedendo e questo è naturale. Si usa internet per qualsiasi cosa, quindi è naturale usarlo anche quando il problema è grave. Credo che sia giusto. Il problema è che le informazioni che arrivano dal web non hanno nessun filtro, se non quello dell’utente stesso. Non c’è possibilità di verificare la correttezza dell’informazione se non attraverso altre fonti. Questo può creare una falsa immagine del problema. Per questo è importante che i medici a loro volta siano aggiornati. In questi casi il medico deve riappropriarsi del suo ruolo di custode di un sapere, deve aiutare la famiglia e il paziente a filtrare correttamente le informazioni che vengono raccolte un po’ a caso dal web. Ma questa è un’altra competenza da acquisire e mettere in pratica…

Oltre che come rianimatore presso il reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, lei ha lavorato anche a Londra. Com’è stata la sua esperienza umana con i pazienti? Nel Regno Unito c’è una maggiore attenzione nell’instaurare il rapporto tra medico e assistito?

Ho lavorato a Londra due anni e posso dire che il sistema lì è completamente diverso. Non sempre migliore, anzi non abbiamo proprio nulla da invidiare. Sicuramente l’aspetto “comunicazione” è un tema che fa parte della formazione degli operatori sin dall’inizio della loro carriera, ma non per questo le tensioni non ci sono. E questo perché secondo me non basta solo sviluppare migliori capacità comunicative, ma bisogna rimettere in discussione le basi della relazione medico-paziente. Credo che la Medicina debba riappropriarsi di quella componente umanistico-filosofica che fin dall’inizio dei tempi le appartiene. Senza conoscenze filosofiche, etiche, antropologiche, psicologiche, la pratica medica è limitata e continuamente messa sotto lo scacco impietoso della naturale caducità della vita. Forse un giorno riusciremo a bloccare la degenerazione degli organismi biologici e quindi vincere tutte le malattie e la morte stessa, ma fino ad allora (o da allora in poi più che mai), abbiamo bisogno di cure che trovino la loro forza e la loro ragion d’essere non solo in una componente biologico-scientifica ma soprattutto nella ben più complessa controparte etica e morale.

Note biografiche

Giuseppe Naretto, torinese, è medico e lavora in un reparto di Terapia Intensiva. Dal 2006 si occupa di etica e comunicazione nei processi di cura. Ha lavorato in Italia e nel Regno Unito. Ha collaborato con il Centro Nazionale Trapianti e con il Coordinamento Regionale dei Prelievi e delle Donazioni del Piemonte nell’ambito della campagna di sensibilizzazione e formazione per la donazione degli organi, scrivendo la favola per bambini “Le avventure della famiglia Organelli” (Sestante Edizioni) e l’opera teatrale “Due di cuori”. Nel 2012 dà inizio alla nuova serie di avventure del medico investigatore Massimo Dighera, con il romanzo Notti di guardia seguito nel 2013 da L’orizzonte capovolto, entrambi pubblicati da Ponte alle Grazie.

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